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“Ai giovani è stato tolto il futuro”: la denuncia di Galimberti e il trauma generazionale mai affrontato in Italia

Era meglio prima? Sì, ma non per colpa dei giovani. Le nuove generazioni vengono spesso indicate come i principali responsabili della “decadenza morale” della società moderna, anche in termini di natalità: i giovani non vogliono fare figli e stanno mettendo a rischio la tenuta del sistema Italia. Confronti generazionali decontestualizzati ampliano il gap tra due parti della popolazione, ma Umberto Galimberti ha sottolineato quanto sia fallace la narrazione dominante.

Intervistato da Repubblica, il filosofo, che di anni ne ha 83, è intervenuto così sul tema: “Padri e nonni non devono dire ai figli ‘ai miei tempi’, perché quelli erano tempi fortunatissimi”. A creare le condizioni attuali sono state le generazioni precedenti: “Ai giovani è stato tolto il futuro”, ammonisce Galimberti.

La retorica del “si stava meglio quando si stava peggio” nasconde un inganno generazionale che i dati confermano con spietata precisione. 

La ricchezza appartiene ai boomer

I numeri parlano chiaro. In Italia, il 58,3% della ricchezza netta appartiene a famiglie con capofamiglia nato prima del 1980. I baby boomer, nati tra il dopoguerra e i primi anni Sessanta, detengono il 43,3% del patrimonio nazionale con una ricchezza media superiore ai 360.000 euro per nucleo familiare. Le famiglie guidate da Millennial o appartenenti alla generazione Z arrancano con una media di appena 150.000 euro, meno della metà rispetto ai loro genitori.​

Questa concentrazione della ricchezza nelle mani degli over 60 non è frutto del caso. Rappresenta l’eredità di un’epoca in cui stabilità lavorativa, salari crescenti e accesso alla proprietà immobiliare erano la norma, non l’eccezione. Un quarantenne baby boomer possedeva un patrimonio superiore del 50% rispetto a un quarantenne di oggi. La mobilità sociale, quella promessa su cui si fondava il patto generazionale del dopoguerra, è diventata un miraggio per l’85,5% degli italiani.​ E con essa le speranze per un futuro stabile, elemento indispensabile, tra le altre cose, per creare un progetto di famiglia.

Per approfondire: Il 76% dei giovani italiani vuole avere figli, ma in una società profondamente diversa

Il lavoro che non basta più

La precarietà si è trasformata da condizione temporanea a elemento strutturale del percorso lavorativo giovanile in Italia.I contratti a tempo determinato riguardano stabilmente quasi il 30% degli occupati. Per i lavoratori tra i 15 e i 34 anni, la percentuale è schizzata dal 19% del 2004 a oltre il 30% nel 2024, con picchi del 37% nel 2018. Il tasso di disoccupazione giovanile si attesta al 20,6% a settembre 2025, quasi quattro volte quello della fascia 50-64 anni.​

Non a caso, i ventenni italiani rischiano la povertà lavorativa quasi quattro volte di più rispetto ai cinquantenni. Nella fascia 16-29 anni, il rischio raggiunge l’11,8%, contro il 9,3% degli over 55, gli under 35 impiegati in condizioni precarie rappresentano il 41% del totale. Il 21% degli occupati è esposto a condizioni di lavoro povero, con giovani e donne maggiormente colpiti.​

Le ricadute sull’economia italiana

In un anno gli italiani guadagnano oltre 5.000 euro in meno della media europea.

La precarietà contrattuale e i salari reali bassi (-8% a marzo 2025 rispetto a gennaio 2021) non sono un problema che riguarda solo giovani, ma una minaccia all’economia del Paese. Meno soldi significano meno acquisti, meno acquisti significano meno guadagni, meno guadagni significano meno lavoro e meno lavoro significa meno produttività.

Non a caso, Giancarlo Giorgetti ha richiamato esplicitamente i datori di lavoro: “Fate la vostra parte, aumentate i salari“, ha ammonito il ministro dell’Economia durante l’audizione al Senato del 24 settembre scorso. Un esempio fulgido arriva dalla Spagna di Pedro Sánchez, che sta registrando una crescita economica record puntando soprattutto sull’aumento del salario minimo e su una maggiore stabilità contrattuale.

Anche l’Inps ha dedicato una importante analisi a queste tematiche, sottolineando che l’economia italiana ha ancora importanti margini di miglioramento. “Il nostro Paese, pur trovandosi in una fase critica, conserva ancora significative opportunità di miglioramento, potendo investire su quelle risorse umane che ancora oggi non sono pienamente attive come forza lavoro, pensando ai giovani in primis, alle donne e ai lavoratori anziani”, ha evidenziato l’Istituto lo scorso 10 aprile durante l’Audizione alla Commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti economici e sociali derivanti dalla transizione demografica.

Per approfondire: L’economia italiana ha ancora margini di miglioramento

La casa, un miraggio per i giovani

Un altro pilastro per una vita dignitosa è la casa. Anche su questo fronte i numeri avvalorano la tesi di Umberto Galimberti: in Italia, più di un milione di millennial tra i 29 e i 39 anni vorrebbe comprare casa ma non può farlo per mancanza di risorse economiche. Meno di un under 40 su due è riuscito ad acquistare un immobile, e tra chi ce l’ha fatta negli ultimi cinque anni, la maggior parte ha avuto bisogno di importanti aiuti familiari.

I calcoli danno vita a numeri impietosi. Un giovane a Milano impiegherebbe 147,5 anni per acquistare casa senza mutuo e 141,3 anni con il mutuo, a Roma rispettivamente 101,2 e 87,6 anni, a Firenze 95,7 e 79,2. A Milano, una giovane coppia può permettersi solo il 20% dell’offerta immobiliare disponibile, a Bologna il 22%.​

La stagnazione salariale, unita all’aumento dei prezzi immobiliari e dei tassi di interesse, ha reso l’accesso alla proprietà un privilegio riservato a chi può contare sul sostegno familiare (e quindi sulle generazioni precedenti).

Il peso delle baby pensioni

Il peso del passato grava anche sui conti pubblici. Le cosiddette baby pensioni, assegni previdenziali erogati a chi ha iniziato a ricevere l’assegno dopo appena 15 anni di contributi, costano allo Stato italiano 9 miliardi di euro all’anno. Circa 400.000 italiani ricevono la pensione da più di 40 anni, con un costo totale stimato dall’Inps pari a 130 miliardi di euro a valori attuali.​

L’età media di inizio della pensione per i baby pensionati era di 42 anni per le donne e 45 per gli uomini, con una media contributiva di 22 anni per le donne e 25 per gli uomini. Il valore medio delle pensioni è di 1.200 euro al mese. Questo squilibrio intergenerazionale, aggravato dalla crisi demografica, si ripercuote direttamente sulle generazioni più giovani, che dovranno sostenere il peso di un sistema pensionistico squilibrato proprio mentre affrontano salari bassi e carriere precarie.​

La fuga e il nichilismo dei giovani

Tutti questi fattori, fanno sì che in Italia la crisi demografica e quella sociale si alimentino a vicenda.

Tra crisi delle nascite e fuga dei cervelli, negli ultimi vent’anni, l’Italia ha perso quasi 3,5 milioni di giovani under 35, con un tasso di decremento del 21%.

C’è poi il fenomeno dei Neet: il 15,2% della popolazione italiana tra i 15 e i 29 anni non studia, non lavora e non segue percorsi formativi. In Ue, solo la Romania ha tassi peggiori.

Ma anche questo “nichilismo giovanile” non è frutto di una scelta dei giovani, bensì conseguenza del vuoto sistemico creato dalla generazioni precedenti, sottolinea Galimberti. Una società che manda i giovani all’università senza garantire loro il lavoro per cui hanno studiato, che li valorizza al massimo delle loro potenzialità biologiche, ideative e sessuali ma nega loro opportunità concrete di costruire un’esistenza autonoma. La distruzione degli equilibri geopolitici per come li conoscevamo e la minaccia di una guerra tra l’asse Russia-Cina e l’Occidente rendono le prospettive ancora più incerte.

La conseguenza è un eterno presente anestetizzato, in cui il futuro appare come minaccia più che come promessa.

Oltre la retorica del sacrificio

I “tempi fortunatissimi” di cui parla Galimberti sono quelli in cui un diploma garantiva stabilità, uno stipendio permetteva di comprare casa, la pensione arrivava ben prima dei settant’anni.

Tempi in cui la mobilità sociale era garantita, al contrario di oggi. Solo il 17,6% dei nati nel 1992 provenienti da famiglie con basso titolo di studio ha conseguito una laurea, contro il 75% di chi ha entrambi i genitori laureati. Negli anni Duemila la mobilità sociale italiana è stata sostituita da una grave immobilità economica: il 10% più ricco detiene il 60% della ricchezza nazionale.​

Le cifre documentano un trasferimento di opportunità dal futuro al passato, dai figli ai padri. Contratti stabili sono diventati precari, salari reali sono scesi invece di salire, il patrimonio si è concentrato nelle mani di chi già lo possedeva e persino i vecchi proverbi gridano giustizia: si stava meglio, quando si stava meglio.

Giovani

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

© Riproduzione riservata

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