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Come si dona il sangue del cordone ombelicale e perché solo poche donne lo fanno

Ogni giorno nelle sale parto d’Italia, il cordone ombelicale finisce nei rifiuti ospedalieri insieme a una risorsa terapeutica che potrebbe cambiare la vita di molti pazienti. Il sangue cordonale, ricco di cellule staminali emopoietiche, è già utilizzato nei protocolli di cura per leucemie, linfomi, immunodeficienze e altre malattie gravi. Eppure, nel nostro Paese le donazioni restano poche: meno di settemila l’anno, appena il 2,8% dei parti nelle strutture autorizzate, una percentuale che non riflette il potenziale di questa fonte di cellule staminali né la domanda crescente di trapianti. Alla vigilia della Giornata Mondiale del Sangue del Cordone Ombelicale, vale la pena ricostruire come funziona la procedura, chi può donare, chi ne beneficia e perché il Paese continua a muoversi con lentezza su un terreno che altrove è considerato strategico.

Come funziona la donazione e cosa rende preziose le cellule cordonali

Per capire l’utilità del sangue cordonale bisogna partire da ciò che contiene: cellule staminali emopoietiche capaci di generare globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. Sono cellule giovani, molto adattabili, con una bassa immunogenicità che riduce la probabilità di rigetto rispetto alle staminali prelevate da midollo o sangue periferico. Questo le rende particolarmente adatte a pazienti che non hanno un donatore compatibile in famiglia e faticano a trovarne uno nei registri internazionali.
La donazione del sangue cordonale è sicura, indolore e non comporta rischi, né per la madre né per il neonato”, spiega Marco Grassi, ginecologo dell’Ospedale “C. e G. Mazzoni” di Ascoli Piceno. E aggiunge: “È una fonte preziosa di cellule staminali ematopoietiche, con elevata capacità di generare cellule del sangue, bassa immunogenicità e facilità di estrazione da un tessuto che altrimenti verrebbe scartato”.

La procedura di raccolta è semplice: dopo la nascita, il cordone viene clampato non prima di 60 secondi, come raccomandato dalle linee guida per garantire al neonato il fisiologico passaggio di sangue materno-fetale. Solo dopo la recisione si procede al prelievo del sangue rimasto nel cordone e nella placenta. Non viene tolto nulla al bambino, perché si tratta esclusivamente del residuo che altrimenti verrebbe eliminato. Il campione raccolto è poi inviato alla banca del sangue cordonale di riferimento, dove viene processato, tipizzato e, se idoneo, congelato in azoto liquido.

Il sistema italiano si basa su una rete di 18 banche distribuite in 13 regioni, collegate a 270 punti nascita. Non tutti gli ospedali, quindi, possono effettuare la raccolta. Quaranta di questi punti nascita operano in regioni prive di una banca cordonale, per garantire comunque una copertura minima del territorio. Una logistica complessa ma funzionante, che però si scontra con numeri ancora modesti. Le cause sono diverse: informazione insufficiente, mancanza di personale dedicato durante i turni più critici, scarsa conoscenza dei criteri di idoneità e una percezione pubblica che tende a confondere la donazione con la conservazione privata, non prevista nel nostro Paese se non nei casi di uso dedicato per familiari con patologie già note.

Dal punto di vista dell’idoneità, la donazione è possibile sia nel parto vaginale che nel cesareo. È gratuita, anonima e revocabile. Per accedervi, la gestante deve essere in buone condizioni di salute, e al momento del parto non devono essere presenti situazioni che comprometterebbero la qualità del campione: febbre materna, rottura delle membrane superiore alle 12 ore, malformazioni congenite del neonato, età gestazionale inferiore alle 35 settimane. Condizioni frequenti nelle sale parto, che però non spiegano completamente la bassa adesione rispetto ad altri Paesi europei.

Per quali malattie è utile e perché la domanda supera l’offerta

Le cellule staminali cordonali vengono impiegate nel trattamento di diverse patologie ematologiche. Le principali sono leucemie e linfomi, ma l’elenco comprende anche talassemie, aplasia midollare e immunodeficienze congenite. In tutti questi casi, l’obiettivo è sostituire un midollo malato o distrutto, ripopolandolo con cellule capaci di generare un nuovo sistema emopoietico. L’utilità si estende anche ai pazienti sottoposti a chemioterapia o trattamenti radianti ad alte dosi, che necessitano di ricostituire rapidamente una produzione cellulare adeguata.

“Le cellule cordonali sono perfettamente in grado di ricostituire un midollo osseo dopo la sua distruzione in seguito a trattamento radio-chemioterapico”, ricorda Grassi. Un’affermazione che riflette l’uso clinico ormai standardizzato, soprattutto nei centri che seguono bambini e giovani adulti.

Il problema, in Italia, è la disponibilità. La probabilità di trovare un donatore compatibile tra i parenti di primo grado è attorno al 30%. Per il restante 70%, la ricerca si sposta sui registri internazionali e sulle banche pubbliche di sangue cordonale. Se il serbatoio delle donazioni resta limitato, anche le possibilità di cura si riducono. A livello statistico, il ricorso a un proprio campione autologo è considerato rarissimo: circa 1 caso su 100.000. Per questa ragione la conservazione privata a uso personale non è consentita nel sistema pubblico, fatta eccezione per l’uso dedicato in presenza di patologie familiari documentate. Il modello italiano punta sulla condivisione, perché è solo con un numero elevato di unità disponibili che cresce la probabilità di una compatibilità per chi è in attesa.

Nel contesto internazionale, l’Italia ha una lunga esperienza nella qualità dei processi e nella tracciabilità, ma resta indietro sulla quantità. Ogni anno molti pazienti italiani vengono trapiantati con unità provenienti da banche estere, un flusso che riflette la scarsità interna di campioni idonei. Le unità cordonali, infatti, devono rispettare requisiti rigorosi di volume e conteggio cellulare: criteri essenziali per garantire l’efficacia del trapianto. La raccolta diventa quindi una sorta di selezione naturale: non tutte le donazioni entrano nelle banche, e questo rende ancora più importante ampliare la base dei prelievi.

Il punto critico è culturale prima ancora che organizzativo. Molte donne scoprono la possibilità di donare solo in prossimità del parto, quando le informazioni si sommano ad altre scelte da affrontare. I corsi preparto non affrontano sempre il tema, oppure lo presentano in modo marginale. L’assenza di una comunicazione chiara e regolare diluisce l’attenzione, mentre i flussi di informazione legati alla crioconservazione privata, spesso spinti da campagne commerciali, generano ulteriore confusione. L’effetto finale è una percezione distorta: la donazione pubblica appare come un’opzione complessa, mentre la sua procedura è una delle più snelle nell’ambito medico.

Chi può beneficiare delle unità raccolte e come funziona la rete pubblica

Il sangue cordonale donato può essere utilizzato per tutti i pazienti che necessitano di un trapianto di cellule staminali emopoietiche. Non esistono destinazioni predefinite, e la procedura resta anonima proprio per garantire equità e massima adattabilità nel sistema di assegnazione. Una volta processata e crioconservata, l’unità entra in un registro accessibile ai centri trapianto nazionali e internazionali. È un patrimonio comune, utilizzabile ogni volta che viene individuata una compatibilità accettabile.

L’Italian Cord Blood Network collega le banche nazionali con gli standard europei e con il sistema globale di scambio. Le 18 banche italiane gestiscono le unità raccolte nei rispettivi punti nascita, tipizzandole e rendendole disponibili per la consultazione. Ogni anno decine di unità italiane vengono spedite all’estero, e altrettante arrivano da fuori per pazienti italiani che non trovano una compatibilità nel circuito nazionale. È un sistema complesso e altamente regolamentato, ma capace di rispondere a situazioni in cui il tempo è un fattore determinante.

In alcuni casi specifici – quando il neonato o un familiare stretto presenta una malattia che richiede un trapianto di cellule staminali – le banche pubbliche possono conservare il sangue cordonale per uso autologo o dedicato. Si tratta di procedure autorizzate caso per caso, su indicazione clinica e con documentazione medica. Anche in queste situazioni, però, la prospettiva rimane quella della donazione come elemento di solidarietà e non come servizio privato.

L’accesso alla donazione, sul territorio, è regolato dall’organizzazione dei punti nascita. I 270 centri attrezzati sono distribuiti in modo eterogeneo: alcune regioni offrono una copertura ampia, altre dipendono da punti singoli o da strutture di regioni confinanti. Questo influenza la disponibilità effettiva. Se la donna partorisce in un ospedale non autorizzato, non può procedere alla donazione. Una scelta che spesso viene fatta mesi prima del parto, rendendo decisiva l’informazione ricevuta in gravidanza.

Gli operatori che seguono la procedura hanno un ruolo fondamentale. La raccolta richiede un coordinamento preciso tra ostetriche, ginecologi e personale dedicato alla conservazione del campione.

Per Grassi “è fondamentale promuovere una corretta informazione sulla donazione del sangue cordonale, perché solo la conoscenza permette di comprendere il valore di un gesto che può avere un grande impatto sulla salute pubblica e sul futuro di molti pazienti”.

Fertilità

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

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